Australia: Casuarina Beach

Australia

Casuarina Beach non era la bianchissima spiaggia piena di gente su cui stendermi al sole, e magari giocare una partita a beach-volley cui avevo pensato quando ero partito, ma aveva una sua originalità. Il colore brillante delle casuarine e quello melmoso dell’Oceano colorato dalle acque riversate dalle alluvioni che flagellavano il Top End si fondevano in una tonalità indefinibile molto prima che il promontorio si gettasse nel mare come un lungo e affilato naso verde. Battuta dal vento e dalle maree, sulla grande distesa sabbiosa luccicante vele montate su ruote avrebbero potuto correre avanti e indietro a perdifiato, all’infinito.

Io pedalavo sfiorando appena le onde lunghissime che lisciavano la battigia come leggere piallate di un falegname pignolo. Nella leggera foschia di sabbia e salsedine sudavo copiosamente, ma il vento mi asciugava immediatamente senza lasciarmi nemmeno il conforto di un po’ d’umido refrigerio. Dopo un’ora abbondante ho raggiunto il promontorio e girato la bicicletta. Soltanto in quel momento ho osservato rapito ed incredulo la portata di un fenomeno inaspettato. Non avevo mai visto una cosa del genere.

Lungi dall'essere un tenero gigante che nulla può togliere a chi lo osserva dalla terraferma, ma solo dare, il mare divorava a vista d'occhio ampie porzioni di terraferma, come altrettanto rapidamente le avrebbe rigettate dodici ore dopo. La marea aveva già risalito la spiaggia di diverse decine di metri e ho dovuto subito valutare un nuovo problema mentre, con preoccupazione sempre maggiore, guadavo in piedi sui pedali piccoli rivoli di acqua che cominciavano a risalire la spiaggia in tutta la sua larghezza. Quando raggiunsi quello che all'andata era un placido fiumiciattolo che mi arrivava a malapena al polpaccio, ho trovato conferma ai miei peggiori timori: una corrente turbolenta di acqua e fango si riversava all'interno della folta barriera di casuarine.

Ho valutato, in maniera approssimativa, temo, la forza e la profondità dell’ostacolo che mi sbarrava strada con una triangolazione sul mare e sull'impronta che avevo lasciato in precedenza e così l’occhio è caduto sulla scritta danger di un cartello in piena vista dove la corrente si infilava nella vegetazione. Mi sono avvicinato e ho osservato con curiosità quasi morbosa le foto che lo corredavano. Le ustioni devastanti che la pelle subiva al contatto con le box jellyfish, e altre meduse solo relativamente meno pericolose, avevano il colore e l'aspetto di squarci inflitti da ore di flagello di cuoio a strisce uncinate. I tempi di soccorso risaltavano in crude cifre a lato d’ogni fotografia. Ho guardato a destra e poi a sinistra. Nessuno. La solitudine che provavo nel vedere la lunga spiaggia vuota di qualsiasi presenza umana era ben diversa dalla solita, avvolgente sensazione di beatitudine che avevo sempre cercato e trovato lungo l'Outback.

Deciso di non essere sufficientemente matto - non poteva essere un caso se il cartello era proprio in quel punto - mi sono inoltrai tra le casuarine alla ricerca di una strada o di un guado più accessibile ma la vegetazione si è fatta subito intricata e il terreno più cedevole. Non c'era nulla del bush ordinato e rassicurante che avevo imparato a conoscere e gli odori che salivano dal terreno umido, un misto d’escrementi, di putredine e d’umidità salsa, erano così densi e pungenti che aggredivano dolorosamente le mucose del naso prima di scendere nei polmoni. Il buio, poi, quasi a diffidarmi di proseguire, è diventato così fitto che mi avvolgeva insieme a rovi e rami. Sul terreno bagnato, a lato del torrente sono rimaste solo le mangrovie e ho pensato che i flagelli del Top End ben si accompagnavano a quell’insano ambiente, rassicurante come un coccodrillo affamato. Inoltre, molto presto l’acqua sarebbe arrivata anche lì. Sono tornato sui miei passi, nella più rilassante luminosità della spiaggia, infinitamente più pacifica meno pericolosa dell'oscurità che mi ero lasciata alle spalle. Il problema, però, era ancora irrisolto. Il fiume, un tumulto di schiuma e di mulinelli largo almeno quindici metri ma che aumentava costantemente, era lì a ricordarmelo.

Ho fissato la barriera di impenetrabile vegetazione, quindi di nuovo il cartello. Il rosso fiammeggiante dei caratteri cubitali sembrava sangue. La Natura mi sfidava a rimanere fino al ritiro della marea come a osare. Non era piacevole. Rimanere su quel lato significava mettermi nelle mani di forze sconosciute. Erano troppe e sembravano tutte ghignare orrendamente e satanicamente contro di me. Lunghe e sottili dita di paura, brutte, scure, nodose e scheletriche come le radici delle mangrovie, mi si stavano già insinuando sotto la pelle. Non avrei mai potuto farcela. Meglio affrontare un avversario soltanto, il fiume, lungo e largo e pericoloso come rogo in cui bruciavano le fiamme dell’inferno. Ho cercato e trovato un po' di sicurezza nel sole, e sullo slancio sono entrato nell'acqua deciso a fare in fretta. Ero consapevole di rischiare la vita dentro il turbolento liquido marrone, eppure l'ho fatto. Il cuore batteva tumultuosamente, ma ho stretto con più forza la bici dalla parte della corrente per avere un minimo di protezione dalle raccapriccianti e invisibili meduse e sono avanzato deciso nell’acqua. Passo dopo passo, il livello è salito velocemente sul mio corpo e il timore è aumentato nella stessa misura fino a afferrarmi lo stomaco, impedendomi di respirare. Poi, l’impeto della corrente ha cominciato a trascinarmi verso le casuarine. Facevo un passo avanti e mi spostavo di due di lato, ma ho continuato con determinazione sulle punte dei piedi e in avanti, pregando su tutto ciò che possedevo di più sacro di non dovere sentire le gambe mulinare improvvisamente nel liquido. Nemmeno pensavo a quell’eventualità per non provocare il destino, ma più realmente non c'era il tempo di farlo.

I secondi sono diventati lunghi come giorni.

L’acqua mi ha lambito le spalle, poi il fondo sabbioso si è finalmente impennato sotto i piedi. Assecondando al meglio la spinta violenta dell’acqua, sono risalito più velocemente di quanto non fossi sceso in una larga diagonale. A metà salita, qualcosa mi ha pizzicato la pelle nuda della coscia. La tensione accumulata dentro di me era tanta che ho reagito come se mi avesse morsicato una tarantola e sono balzato fuori dell’acqua per tutta la mia lunghezza, come se improvvisamente bollisse. Con due balzi sono uscito e ho guardato in basso, verso l'oscenità che continuava dolorosamente a urticarmi. Mi aspettavo di vedere le ustioni ma dovevo saperlo che non poteva essere così visto che non avevo sentito nulla di doloroso. Solo un’informe e innocua alga rossa e ruvida pendeva dai pantaloncini, sfregando contro la pelle nuda, ma lo stesso mi sono affrettato a rimontare sulla bicicletta e sono partito. Pedalando sempre più veloce, mi sono lasciato alle spalle il liquido rogo marrone ma la paura che avevo passato mi inseguiva tanto da vicino che sembrava ghermirmi le gambe, trattenermi. Ho spinto ancora di più sui pedali fino a farlo convulsamente, disordinatamente. Ho esaurito anche l’ultimo grammo di fiato prima di fermarmi. Il cuore batteva così veloce e forte produceva un suono continuo e il sangue rombava nelle orecchie come i reattori di un jet quando. Mi sono voltato. Il fiume non era che una sottilissima linea che si confondeva con la spiaggia. Ho ripreso a pedalare verso la città con la coda tra le gambe.

L’ultima emozione era stata di troppo.

LA CHIUSURA DEL CERCHIO
Un grande disco arancione è sorto sulla mia ultima notte in coach e ha tinteggiato di caldi colori i paesi che sfilavano con continuità uno dopo l’altro lungo la highway, una vista impressionante dopo avere osservato migliaia di chilometri di terre che avevano in comune il solo aspetto di essere praticamente disabitate.

Undici notti in coach mi avevano permesso di risparmiare venti giorni di viaggio nonché stupido denaro. Hanno avuto un peso decisivo sulla buona riuscita del mio viaggio. Avevo abbondantemente passato la boa dei due mesi lontano da casa. Da quattro settimane non vedevo l'ora di partire, da un mese vedere posti sempre nuovi non era più una novità esaltante e, con poche eccezioni, avevo sempre avuto la brutta sensazione di timbrare ogni giorno il cartellino. Il mio equilibrio emotivo correva sul filo sottile e tormentoso della malinconia e la mia personalità, persino quel carattere forte dietro al quale sono sempre solito riparare per radunare i cocci di un momentaccio e ripartire vacillava impotente sotto i soffi più lievi. La nostalgia mi saltava addosso nelle occasioni più inaspettate, talvolta nel bel mezzo di una risata o di un buon momento. Alti e bassi si susseguivano a ritmi vertiginosi lasciandomi stordito e spossato come dopo uno sforzo intenso, ma avevo proseguito a volte con entusiasmo e spesso per inerzia, convivendo lo stritolante desiderio di cominciare al più presto una nuova vita, tanto intenso da stringermi lo stomaco.

Un po’ di granelli di sabbia di Byron Bay erano rimasti attaccati alle dita dei piedi e, lontano dal provarne fastidio, mi donavano una calda sensazione mentre che li sfregavo contro la pelle con leggeri movimenti dei piedi. Infatti, quando la baia di Byron entrava nel grande spolvero del tardo pomeriggio, e una lunga passeggiata concludeva la mia giornata, e la sabbia scricchiolava sotto i piedi nudi come un sottile strato di neve appena caduta, ridevo come un bambino nel fare scoppiare sotto i passi minuscole meduse lilla gonfiate come palloncini dal calore della giornata e con me ridevano le persone che incrociavo. Condividevamo questo sciocco divertimento e i sorrisi e i saluti si sprecavano come se in quel luogo si fossero accumulati per centinaia di anni in attesa di questi difficili e poco comunicativi tempi moderni. Sembravamo tutti amici. La spiaggia di Byron Bay sembrava essere stata creata per rendere felici le persone, ma avrebbe dovuto essere così sempre e ovunque, in virtù di un’intelligenza che spetta soltanto all’uomo e alla sua notevole evoluzione. La mente dovrebbe essere sempre libera di vagare, come gli occhi e le labbra dovrebbero sempre sorridere. Si dovrebbe sempre tornare bambini una volta esaurite le responsabilità della vita quotidiana e come bambini ci si dovrebbe sempre entusiasmarsi e ridere di ogni cosa nuova che si fa e si vede. Dietro a ogni attimo vissuto in totale libertà si nascondono nuove scoperte su di noi e sugli altri. Le marachelle, i dispetti, i giochi sono sinonimo di purezza, di vivacità, di gioia di vivere, di voglia di crescere, di muoversi, di imparare, di provare, di vedere le cose in tutti i modi per non lasciare indietro nulla che possa provocare amari rimpianti quando verrà il momento dei bilanci e di lasciare a altri quello che siamo e abbiamo imparato, non certo quello che abbiamo guadagnato.

L’idea di girare l'Australia in coach, unico mezzo diffuso in modo capillare ed uniforme sull’esteso continente, mi aveva subito affascinato. Il treno non arrivava da nessuna parte al di fuori della popolata costa orientale e sudorientale fino a Adelaide e il servizio era spesso integrato con gli autobus, mentre nel resto del paese si prestava a particolari tragitti mantenuti in vita più perpetuare leggende come il Ghan, a tariffe anch'esse leggendarie, che non per una effettiva utilità. L'aereo arriva ovunque a prezzi spesso molto accessibili, ma non possedeva quel sapore e quella magia seducente del coast to coast che cercavo, così avevo comprato a casa lo speciale pass della Greyhound Pioneer, scegliendo la combinazione che mi avrebbe consentito di viaggiare in circolo, in un senso solo, facendo tutte le fermate che volevo per il tempo che volevo, tutta la metà orientale dell’Australia. Sinceramente, a un certo punto mi è mancata una certa flessibilità. Programmando di volta in volta e pezzo per pezzo tutto il viaggio, dividendo tratti in macchina insieme a altri backpacker che avevano scelto la libertà dell’auto, usufruendo della necessità delle ditte di noleggio di spostare auto e camper tra le varie città australiana, optando per le linee specializzate di coach che toccavano direttamente tutti i punti di interesse lungo un particolare itinerario, avrei potuto godere della maggiore libertà la cui mancanza mi ha qualche volta causato stizze. Ma di una cosa sono sicuro: non mi sono mai pentito della scelta del coach. Non sbagliai nel preferire il fascino alla comodità.

A Sydney ho dunque chiuso dunque un cerchio. Ho avvertito le prime fitte di nostalgia per una bella avventura ormai finita non appena ho appoggiato il piede sul lucido marciapiede che mi aveva visto salpare per la mia lunga peripezia on the road in un uggioso giorno di pioggia. Quella che mesi prima aveva i connotati di una vera impresa si era sciolta passo dopo passo, giorno dopo giorno, in una vita né più né meno normale di quella che facevo ogni giorno a casa. In fondo, cosa ci poteva essere di speciale in quello che avevo fatto io?

Niente. Ero solo andato in giro e mi ero guardato intorno, anche se l'attenzione e la curiosità, quella che comunemente viene definita contemplazione, mi hanno cresciuto continuamente fino a cambiare il mio modo vedere le cose, non certo la maniera di viverle. Sapevo già che si è soddisfatti solo quando si fa ciò che si ritiene giusto per sé, ma il muovermi solo negli immensi spazi australiani mi ha dato qualcosa di altrettanto importante: l'attenzione verso me stesso in relazione al rapporto con gli altri.
Scrive William Least Heat-Moon: "Si possono percorrere milioni di chilometri in una sola vita senza mai scalfire la superficie dei luoghi né imparare nulla delle persone che sfioriamo. Spostarsi è facile. Spesso ce lo impone il lavoro, oppure si vola da una parte all'altra del pianeta per spedire cartoline, scattare fotografie, comprare ricordini per parenti e amici, e tornare indietro identici a come si è partiti. Viaggiare con gli occhi sgranati davanti alle meraviglie altrui è inutile, quando l'anima resta chiusa nella cassaforte di casa. Un vero viaggio lo si può fare anche camminando a piedi fino al quartiere vicino… "

Ed è proprio così, ho pensato, ma solo quando sono giunto a casa. Solo a casa mi sono reso conto che avevo chiuso dentro di me tutto quel che avevo trovato dentro il cerchio di quindicimila chilometri e ho continuato a osservare e scoprire cose nuove anche dove vivo da sempre, ho imparato che posso trovare l’esotico e provare le stesse emozioni dei posti più belli del pianeta anche vicino, a cavallo della mia mountain-bike nelle forre isolate degli Appennini romagnoli come in luoghi appena sfiorati dai rumori di Cesena, la mia città. Anzi, senza dovermi costantemente preoccupare per le mie cose e per la mia incolumità fisica - zavorre enormemente pesanti quando si viaggia soli - è stato per certi versi anche meglio. Il segreto è osservare.

Osservare è viaggiare e non il contrario.

Ultimo giorno. Ero alla fine della mia lunga avventura australiana. Da un mese volevo tornare a casa, ma ora che era arrivato il momento di partire mi sentivo più triste e più solo che mai. Inoltre, cadeva una pioggia leggera, ma continua, così che il cielo sembrava piangere alimentandosi del mio sconforto. Non appena qualche timido raggio di sole ha trafitto le nuvole, mi sono diretto verso Bondi e la passeggiata sulla scogliera. Nel punto esatto in cui avevo riempito il primo dei miei foglietti sfusi, mi sono seduto ritrovando le stesse emozioni. Raggi caldissimi si alternavano al vento gelido, per cui mi sono alzato e mi sono spinto ben oltre Coogee Beach e fino al cimitero degli artisti. Il camposanto digradava dolcemente fino alla scogliera sull'Oceano.

Ho passeggiato in quella stranezza di cimitero australiano, tra lapidi d'ardesia, di marmo e di sasso, tra monumenti di granito, di ferro battuto, tra forme tanto strane quanto belle, e soprattutto tra epitaffi dolci, malinconici, affettuosi o anche divertenti che ogni sepolcro riportava e che nell'insieme ricordavano i versi dell'Antologia di Spoon River. Il tempo è volato. Si stava facendo tardi e, sia pure a malincuore, dovevo andarmene, stavolta per davvero. Un’immagine si è impressa indelebilmente nella mia mente quando, sulla sommità di un’ondulazione del terreno, mi sono voltato indietro. Non mi ero ancora accorto del cielo che era diventato di attimo in attimo più cupo, e nella luce bluastra e fosca della tempesta che incombeva velocemente da est, il prato verde era del colore di uno schermo regolato male e le lapidi, le croci, i monumenti e gli ammennicoli dardeggiavano come luci aumentando a dismisura la suggestione di quel luogo. Era uno di quei momenti che mi sarei portato dietro, momenti che ripagano con gli interessi di strenue fatiche e laceranti rinunce. Ogni volta che succedeva, sembrava che il cammino lento e apparentemente senza senso mi avesse condotto per mano fino a un istante di irrepetibile bellezza, perla di un viaggio senza scopo alcuno che di osservare, scoprire, imparare. Era per momenti come quello che avevo viaggiato: sprazzi di luce, o di idee, di colori del tutto inattesi e per questo più luminosi.

Il groppo della commozione mi ha stretto tanto forte la gola da bloccarmi, da impedirmi di girarmi e allontanarmi. Per un attimo, mi ha sfiorato l’idea di non partire per perpetuare l’abitudine quotidiana agli spazi aperti, ai colori puliti e intensi. Ma non era questo che avevo imparato. Avevo un altro Outback da superare, come un altro ne avrei avuto non appena anche quello sarebbe diventato un ricordo. Allora ho annuito e mi sono voltato, ma ero lo stesso triste quando sono sceso sotto la linea della collina.


BRANI ESTRATTI DA
Australiando (Riscoprirsi camminando tra Natura, Miti e Genti) di Claudio Montalti
Edizioni Viaggiatorionline - Il Ponte Vecchio
Collana: Giramondo
172 pagine in brossura. 13,00 euro

Web autore
www.claudiomontalti.net

Email autore claudiomontalti@gmail.com

[ Autore: Claudio Montalti ] Pubblicato: 18/05/2008 Letto: 4790 volte